Gli artisti, il denaro e l’onore
Picasso sembra essere stato l’artista più prolifico e più ricco di tutti i tempi, e il suo patrimonio - quando morì nel 1973 all’età di novantun anni - comprendeva una straordinaria quantità di opere: 1885 dipinti, 1228 sculture, 7089 disegni, 30000 stampe, 150 album di schizzi, 3222 opere in ceramiche, insieme con due castelli, tre case, 4 milioni e mezzo di dollari in contanti, un milione 400 mila dollari in oro, titoli e obbligazioni per 24 milioni di dollari. Sembra anche che Picasso, dopo aver raggiunto il benessere economico, avesse preso una particolare abitudine, quella di portare sempre con sé rilevanti somme di denaro liquido: la cosa gli dava grande sicurezza.
Discutendo di arte con un collezionista - e i collezionisti sono oggi i veri critici nel senso più profondo del termine - mi è capitato di ricordare Picasso e la sua storia artistica ed umana. Il denaro è il fulcro discriminante della critica. Il collezionista autentico è uno che quando afferma "mi piace" fa seguire immediatamente un’azione diretta, cioè è pronto a pagare il prezzo del suo giudizio. E’ come giocare a poker, quando si dice "vedo" bisogna mettere i soldi sul tavolo. I soldi sono molto importanti per gli artisti, non perché gli artisti siano particolarmente avidi, ma perché il denaro ha un significato interno, alchemico. Se si leggono le lettere degli artisti, da Michelangelo a Raffaello, da Tiziano a De Chirico, parlano spesso di soldi. Pensiamo all’americano Andy Warhol. La sua filosofia si basava sull’assunto: "Ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista manager". Che poi è ciò che fece, non senza tuttavia aver infilato, fra la sua carriera di disegnatore pubblicitario negli anni Cinquanta e in quella di intermediario dell’industria culturale negli anni Settanta, una proficua e accettabile carriera di artista. Warhol aveva un sogno riguardante la sua personale ricchezza: voleva camminare per strada e sentire qualcuno bisbigliare: "Ecco la persona più ricca del mondo". L’equazione di Joseph Beuys creatività=capitale fu interpretata da Warhol al contrario, come d’altra parte fece Marx quando, assumendo il punto di vista capitalista, scrisse nei suoi manoscritti del 1844: "Attraverso il suo ruolo di mediazione il denaro è l’unica forza creativa". E ancora: "Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità ... Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede"?
Discutendo di arte con un collezionista - e i collezionisti sono oggi i veri critici nel senso più profondo del termine - mi è capitato di ricordare Picasso e la sua storia artistica ed umana. Il denaro è il fulcro discriminante della critica. Il collezionista autentico è uno che quando afferma "mi piace" fa seguire immediatamente un’azione diretta, cioè è pronto a pagare il prezzo del suo giudizio. E’ come giocare a poker, quando si dice "vedo" bisogna mettere i soldi sul tavolo. I soldi sono molto importanti per gli artisti, non perché gli artisti siano particolarmente avidi, ma perché il denaro ha un significato interno, alchemico. Se si leggono le lettere degli artisti, da Michelangelo a Raffaello, da Tiziano a De Chirico, parlano spesso di soldi. Pensiamo all’americano Andy Warhol. La sua filosofia si basava sull’assunto: "Ho cominciato come artista commerciale e voglio finire come artista manager". Che poi è ciò che fece, non senza tuttavia aver infilato, fra la sua carriera di disegnatore pubblicitario negli anni Cinquanta e in quella di intermediario dell’industria culturale negli anni Settanta, una proficua e accettabile carriera di artista. Warhol aveva un sogno riguardante la sua personale ricchezza: voleva camminare per strada e sentire qualcuno bisbigliare: "Ecco la persona più ricca del mondo". L’equazione di Joseph Beuys creatività=capitale fu interpretata da Warhol al contrario, come d’altra parte fece Marx quando, assumendo il punto di vista capitalista, scrisse nei suoi manoscritti del 1844: "Attraverso il suo ruolo di mediazione il denaro è l’unica forza creativa". E ancora: "Ciò che mediante il denaro è a mia disposizione, ciò che io posso pagare, ciò che il denaro può comprare, quello sono io stesso. Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso, non è quindi affatto determinato dalla mia individualità ... Io sono uno stupido, ma il denaro è la vera intelligenza di tutte le cose; e allora come potrebbe essere stupido chi lo possiede"?
Marx è decisamente passato di moda ma le sue considerazioni sono ancora utili per dare una spiegazione al fatto che una volta l’arte aveva un valore ed un prezzo, mentre adesso il prezzo di un’opera d’arte è diventato il suo valore. In effetti questa pianificazione del mercato in modo che le opere d’arte vengano equiparate al denaro è cosa antica. Iniziò a farlo Rembrandt, ma piuttosto che avidità o bisogno, la sua fu una chiara strategia per ottenere la propria libertà più col valore di mercato che con gli onori e il favore dei potenti. Cercava l’onore non nel senso degli onori che gli altri potevano conferirgli, ma nel senso di ciò che l’arte poteva conferire, il valore che la sua stessa arte creava, e ciò era quantificato in denaro. Rembrandt era sempre senza soldi e disposto a promettere dipinti o incisioni in pagamento dei suoi debiti. Pare che alcuni clienti arrivassero alla conclusione che uno dei modi per assicurarsi la consegna di un’opera era di mettere Rembrandt tra i loro debitori. Una valorizzazione dei propri meriti artistici, sì da accomunare dipinti e denaro con una qualità astratta: per quanto in sé non fosse niente, il denaro - allora come oggi - veniva accettato come la rappresentazione del valore. E questo quasi lo estetizzava, allora come sempre.