Il ruolo dell’artista nella città
Negli ultimi decenni la città ha progressivamente perso le sue caratteristiche di luogo di convivenza pacifica per diventare quasi una discarica non controllata di rifiuti egoistici. Le piazze e le strade sono lo scenario violento di accozzaglie estetiche, inconciliabili tra loro: le facciate delle case manifestano l’egoismo di chi le possiede, le ha costruite e le ha progettate; i giardini pubblici esprimono l’egoismo dei giardinieri, le pavimentazioni quello dell’impiegato dell’ufficio tecnico comunale, le cassette del gas quello del funzionario della società erogatrice, e così via.
Allora, cosa può fare l’artista? Sicuramente, non aggiungere a tanti egoismi il suo, che pure sarebbe qualificato professionalmente, e nemmeno esibirsi in posizionamenti arbitrari di sculture, pseudofontane o mucchi di ciarpame artistico. La città è sempre stata un’opera collettiva con una regola precisa, l’integrazione. Il ruolo dell’artista è un ruolo definito, non deve essere reinventato, solo ripreso a pieno titolo e accettato politicamente. L’artista non deve aggiungere, deve togliere, discernere e sfoltire. La città è piena di cose inutili e l’artista deve impegnarsi per eliminarle. Deve progettare attentamente, più per astenersi dall’agire che per agire in prima persona e, se decide di farlo, deve usare leggerezza, cautela e rispetto per i valori fondamentali della vita umana e per il vantaggio esclusivo della città.
Nel luogo pubblico l’arte si fa carico della sua massima responsabilità che, a ben ricordare, è propria della sua antichissima natura. Per tradizione millenaria l’artista ha contribuito alla costruzione della città, l’ha plasmata, ne ha definito artisticamente i valori, unificando in tal modo le istanze dei singoli individui. Ma sarà possibile per i geometrasti, i ragionieranti e gli architettucci - una volta per tutte - rinunciare agli egoismi di cui sono impregnati e che riversano in ciò che considerano sia arte e che invece non è altro che becera, miserevole vanità?
Negli ultimi decenni la città ha progressivamente perso le sue caratteristiche di luogo di convivenza pacifica per diventare quasi una discarica non controllata di rifiuti egoistici. Le piazze e le strade sono lo scenario violento di accozzaglie estetiche, inconciliabili tra loro: le facciate delle case manifestano l’egoismo di chi le possiede, le ha costruite e le ha progettate; i giardini pubblici esprimono l’egoismo dei giardinieri, le pavimentazioni quello dell’impiegato dell’ufficio tecnico comunale, le cassette del gas quello del funzionario della società erogatrice, e così via.
Allora, cosa può fare l’artista? Sicuramente, non aggiungere a tanti egoismi il suo, che pure sarebbe qualificato professionalmente, e nemmeno esibirsi in posizionamenti arbitrari di sculture, pseudofontane o mucchi di ciarpame artistico. La città è sempre stata un’opera collettiva con una regola precisa, l’integrazione. Il ruolo dell’artista è un ruolo definito, non deve essere reinventato, solo ripreso a pieno titolo e accettato politicamente. L’artista non deve aggiungere, deve togliere, discernere e sfoltire. La città è piena di cose inutili e l’artista deve impegnarsi per eliminarle. Deve progettare attentamente, più per astenersi dall’agire che per agire in prima persona e, se decide di farlo, deve usare leggerezza, cautela e rispetto per i valori fondamentali della vita umana e per il vantaggio esclusivo della città.
Nel luogo pubblico l’arte si fa carico della sua massima responsabilità che, a ben ricordare, è propria della sua antichissima natura. Per tradizione millenaria l’artista ha contribuito alla costruzione della città, l’ha plasmata, ne ha definito artisticamente i valori, unificando in tal modo le istanze dei singoli individui. Ma sarà possibile per i geometrasti, i ragionieranti e gli architettucci - una volta per tutte - rinunciare agli egoismi di cui sono impregnati e che riversano in ciò che considerano sia arte e che invece non è altro che becera, miserevole vanità?